Molti atleti non hanno chiaro che in quanto atleti sono un brand. Molti sono confusi al riguardo. Molti pensano sia affare di pochi, di quelli veramente famosi.
In generale, tutti noi pensiamo che il brand sia legato solo alle grandi aziende il cui logo e i cui prodotti sono immediatamente riconoscibili, ma in realtà anche gli individui possono avere un brand!
Perchè è invece importante che ogni atleta si senta, indifferentemente dalla disciplina, dall’età, dal livello e dalla notorietà di essere brand? Che cosa significa essere brand?
‹brä′nd› s. ingl. (propr. «marca, marchio»; pl. brands ‹brä′nds›), usato in ital. al masch. – Nel linguaggio della pubblicità e del marketing aziendale, marchio di fabbrica.
Il marchio 1. è un segno applicato, stampato, impresso ecc. su cose o animali per distinguerli da altri o per indicarne le caratteristiche, la provenienza ecc., e in senso concreto è anche lo strumento per imprimere questo segno (segnare le bestie con un m. a fuoco; contraddistinguere le merci con un m.); 2. in particolare, il marchio è il simbolo o il nome che contraddistingue una merce, un prodotto da un altro, e in questo significato è sinonimo di marca, brand (i grandi marchi della moda, dell’arredamento, del design; un importante m. made in Italy).
ll Brand è la combinazione di elementi (quali nome, slogan, logo, comunicazione, storia e reputazione) che funzionano come segno distintivo e identificativo di un’impresa (e non solo). La marca (o brand) racchiude in sé immagine, valori, significato, ecc. che lo differenziano dai competitor, determinando il rapporto con il pubblico di riferimento.
Secondo Philip Kotler e Gary Armstrong nel loro Principi di Marketing, il significato di brand è «tutto ciò che un prodotto o servizio rappresenta per i consumatori», come affermano , aggiungendo che questa è «la risorsa più durevole dell’impresa, che vive più a lungo dei singoli prodotti e delle strutture».
Il brand è un bene intangibile e, come sostengono Kotler e Armstrong è l’insieme di «percezioni e sensazioni dei consumatori rispetto a un prodotto e alle sue prestazioni». Da qui possiamo già facilmente intuire che tutti siamo intitolati a considerarci un brand.
Però, non tutti siamo obbligati a farlo. Perchè un atleta invece sì?
Perchè se non lo è già perchè ancora agli inizi di carriera, in qualità di atleta professionista sarà presto un personaggio pubblico e tutto ciò che lo riguarda e sarà a disposizione di un audience definirà chi è, il significato e i valori di chi è, definirà la sua immagine. E stabilirà la connessione con il suo audience, i suoi fan.
Questa connessione, che è emotiva, può essere positiva o negativa e può anche significare che ci fidiamo, ci interessiamo o addirittura lo amiamo!
Che cos’è il brand di un atleta?
È la comunicazione della sua unicità: le sue attività sportive, il suo curriculum sportivo, il suo palmarès, le sue performance, la sua storia, il suo stile, i suoi interessi e le sue convinzioni, i suoi comportamenti e i suoi valori!
Perché è importante che un atleta conosca e gestisca il proprio brand?
Sia che si stia allenando con i compagni di squadra, che stia competendo a una gara, che stia tenendo uno speech sul palcoscenico, stia rilasciando un’intervista a un giornalista, che sia a colloquio con un’azienda potenziale sponsor, sta facendo un’impressione: sta comunicando il suo brand.
Alcuni atleti sognano di diventare famosi o di vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi, altri sognano solo di fare un bel percorso in uno sport senza gare. Conoscendo il suo brand e facendo l’impressione che desidero, si accorgerà di essere in grado di ottenere le opportunità che cerca e di avere un percorso più agevole e soddisfacente nello sport e nella vita!
Perchè tutto questo riguarda le aziende?
I brand ben disegnati (= ben definiti e aderenti all’identità unica, allo stile, ai bisogni, ai desideri, agli obiettivi) possono avere un impatto emotivo su di noi consumatori e contribuire a creare una sorta di relazione tra noi e il brand (e i prodotti o l’azienda a cui è associato).
L’atleta in qualità di brand con una sua identità unica, un suo proprio significato, dei valori e un link emozionale con i suoi fan, può essere un perfetto rappresentante (= testimonial) di un altro brand e rafforzare quel link emozionale di cui abbiamo appena parlato.
Potremmo in qualche modo dire che l’abbinamento di 1 brand + 1 altro brand non fa 2 brand ma un terzo “brand al quadrato”, molto potente e parte vitale di un piano di marketing e comunicazione integrato e di valore per tutti i tipi di aziende, organizzazioni, enti di beneficenza.
Che cosa manca?
Se abbiamo già fatto un passo avanti e compreso che siamo un brand, ciò che manca è capire che cosa va fatto per disegnare quel brand in modo che venga percepito esattamente come desideriamo.
Per gli atleti junior ed emergenti, costruire un brand personale solido è il primo passo per creare una carriera lunga e di successo.
È uno degli strumenti più potenti per accedere al mercato di riferimento. Determina il modo in cui i fan, gli sponsor e il mondo dello sport professionistico percepiscono l’atleta e come lo ricordano e riconoscono.
Il branding dell’atleta è un’area complessa soprattutto perché la concorrenza nel settore del marketing sportivo è elevata.
Per un atleta emergente può essere difficile distinguersi dalla massa. Inoltre, nella costruzione di un marchio personale e di una strategia di marketing solidi sono coinvolte numerose parti.
Bisogna considerare tutti gli elementi, da quelli tangibili, come il logo, la scelta dei caratteri e il design, a quelli intangibili, come la promessa del brand (e nell’abbinamento azienda-testimonial di due) e la persona in costante evoluzione nella sua totalità – da atleta e da essere umano.
Le aziende che hanno la necessità di dedicare una fetta (più o meno grossa) allo sports marketing hanno una responsabilità nell’aiutare l’atleta a definire il proprio brand. Ovvio è una responsabilità con un ritorno e il ritorno che più ha senso per un’azienda a fine anno fiscale: il famoso ROI.
Oggi il marketing sportivo e il personal branding sono una partnership che deve essere promossa e preservata e per farlo bisogna mettere in campo molti elementi:
la solita visione di lungo termine, anzi di più ancora, deve assomigliare a un sogno, competenze tecniche, le famose hard skills, tanta esperienza sul campo e una strategia che non consideri solo lo sports marketing come attività integrata a tutte le altre di marketing e comunicazione ma che parta dall’investimento sull’atleta brand e lo affianchi nel suo percorso di crescita.
È per questa ragione che noi di Sports&Beyond abbiamo deciso di creare un format dedicato alle aziende sportive che desiderino aumentare il proprio ROI nello sports marketing partendo proprio dall’investimento nella risorsa umana chiamata atleta.
Quando abbiamo iniziato a lavorare nel marketing e comunicazione eravamo in azienda: Andrea ed io nell’ufficio marketing di The North Face EMEA e Agnese nell’agenzia PR di The North Face per l’Italia.
Parliamo di 20 anni fa quando la comunicazione delle aziende si basava soprattutto sulla pubblicità e sull’ufficio stampa, l’80% del budget era collocato in queste due attività. Forse esagero perché ho ancora il dente avvelenato 😀 per i pochi spiccioli che venivano collocati nelle sponsorizzazioni (mia area diretta) ma non siamo poi così lontani.
Sembra strano dirlo, ma non esisteva nulla di tutto ciò che oggi chiamiamo “comunicazione digitale”: social network, magazine online, influencer marketing…
E per media intendevamo: testate cartacee, tv e radio.
Il media buying coinvolgeva oltre a questi anche i billboard lungo le strade più trafficate o sulle grandi piazze commerciali (fisiche), gli schermi delle sale cinema e, a parte il sito aziendale esso stesso media, di online c’erano i banner su siti web di interesse.
L’ufficio stampa era l’area del marketing più cool, in fin dei conti avere a che fare con chi poteva, penna alla mano, elevare o abbattere il brand, il prodotto o l’evento, era un gioco entusiasmante. I giornalisti avevano un gran potere e l’atteggiamento dell’azienda era decisamente reverenziale. Conferenze stampa, get-together o press event all’interno di altri eventi, erano tutte belle occasioni di scambio, di conoscenza, di confronto diretti, di rete reale.
Ma cosa fa in pratica un ufficio stampa?
“L’ufficio stampa ha una funzione d’informazione prettamente giornalistica, in quanto diffonde notizie per conto di aziende, organismi, enti privati o pubblici”.
Wikipedia
Come ci spiega bene Agnese, nostra responsabile ufficio stampa e digital PR, questa è la spiegazione tecnica. In pratica, il lavoro è molto articolato e complesso.
“Prima di tutto, l’ufficio stampa sta a contatto con il cliente quotidianamente, raccogliendo informazioni su tutto ciò che succede in azienda o, nel caso di un atleta nella sua vita (e in questo caso sia professionale che fin dove possibile anche privata!).
Allo stesso tempo, si tiene informato su tutto ciò che succede nel mondo e nello specifico nei settori di riferimento del proprio cliente. L’obiettivo è monitorare la concorrenza e capire come si sta muovendo a livello di comunicazione.
Oltre a questa fase di analisi e studio, l’ufficio stampa si occupa di scrivere tutti i testi, i comunicati stampa, che vengono poi diffusi ai media per comunicare le novità aziendali. Il comunicato stampa non è un semplice testo, ma possiede delle regole di scrittura e di forma ben precise che devono essere conosciute e rispettate da un bravo addetto stampa. Una volta inviati i comunicati ai giornalisti, inizia il suo lavoro di media relation, per costruirsi una rete che dia i risultati voluti.”
In gran parte è cambiato il palcoscenico che, appunto, ora è più digitale che fatto di materia tangibile. La penna del giornalista, già all’epoca tastiera, agisce in uno spazio bidimensionale e il mestiere del giornalista è affiancato dal mestiere di influencer. Quindi su uno stesso tema si può avere l’intervento del giornalista e anche dell’influencer, dove ci si aspetta che il primo abbia dei contenuti e il secondo una buona audience, entrambe credibilità attraverso i rispettivi canali di comunicazione.
Per l’ufficio stampa dunque non si tratta più di avere a che fare con i media tout-court ma anche con il parallelo di testimonial che appartengono a mondi diversi ma che in qualche modo toccano quello interessato (dell’azienda cliente).
Non si tratta più semplicemente di accedere a delle liste, dii nuovi o di fidalizzati referenti media, ma anche di un grande lavoro di ricerca di quelli che possono essere gli influencer più giusti. Ma questo tema lo lasciamo per un prossimo articolo, qui ci concentriamo sul lavoro di ufficio stampa “classico”.
Ciò che non cambia è quella che è l’essenza di un ufficio stampa: le pubbliche relazioni.
Rimanendo nel nostro mondo, dietro a una bella pagina vetrina di scarpe sportive, dietro all’intervista di un’atleta o dietro a un’intervista all’AD di un’azienda o a un manager sportivo, c’è sempre una relazione diretta e costante dell’ufficio stampa con il giornalista.
In un momento dove tutti siamo bombardati da news, lanci, promozioni, quanto vale la ricezione dell’ennesimo comunicato stampa per un giornalista?
Ci assumiamo la responsabilità di rispondere: zero.
È la comunicazione diretta, l’idea creativa, la prospettiva o le prospettive perché non parli di…sarebbe interessante” suggerite come taglio all’intervista che possono fare la differenza. E tutto ciò può avvenire solo se dall’altra parte c’è qualcuno, il giornalista, che vedendo il tuo numero ha voglia di rispondere. Proprio a te e non ai cento altri di quella giornata.
Come per ogni altro genere di relazione forte e di lunga durata nel tempo si tratta di fiducia, costruita su:
fatti di sostanza
credibilità
affidabilità
Alla fine il legame che si crea tra un ufficio stampa e il giornalista è un legame potente che non può generarsi in poco tempo, ma che richiede lunga esperienza e grandi capacità di public relation da parte dell’addetto stampa, che hanno più a che fare con le soft skills che con le competenze tecniche. E come le metti queste in una presentazione? Come fai a raccontare i retroscena di quella fantastica prima pagina sul quotidiano più ambito che agli occhi del mondo alla fine è solo prima pagina e per te sono 20 anni di lavoro duro e di cura delle relazioni?
Quali sono i vantaggi di un ufficio stampa nel piano di comunicazione di un’azienda?
Spesso, ancor oggi, l’ufficio stampa viene confuso con la pubblicità. Anche se entrambe le attività portano alla promozione di un brand o di un prodotto, mentre la pubblicità ha questo come unico obiettivo, l’ufficio stampa si pone come primo obiettivo di informare, comunicare. La pubblicità richiede ovviamente dei costi di investimento che il cliente deve sostenere per essere presente su un giornale, una rivista o un magazine online. L’ufficio stampa, invece, lavora per far uscire articoli “non a pagamento” che vengono pubblicati grazie alla forza della notizia e grazie all’influenza che l’addetto stampa ha sul giornalista. Quindi il primo vantaggio per un’azienda o un atleta è di natura economica.
Poi, la forza e l’interesse verso una notizia si può misurare da quanti articoli spontanei vengono pubblicati grazie al lavoro dell’ufficio stampa. Quindi il secondo vantaggio è di valore: il valore di un articolo è sicuramente più elevato di una pagina pubblicitaria o di un publiredazionale.
Il terzo vantaggio è in termini di crescita della brand awareness: avere una buona rassegna stampa consente al brand di diventare più credibile di fronte a consumatori, investitori, fornitori, clienti, ecc. Una buona rassegna stampa può essere più influente di una brochure di presentazione aziendale, perché consente di mostrare la credibilità del brand attestata da persone esterne all’azienda.
Il quarto vantaggio è legato all’attuale comunicazione digitale: oggi l’ufficio stampa interagisce in modo molto elevato con i magazine online, ottenendo pubblicazioni veloci, live (senza dover attendere i tempi di una rivista mensile). Questo consente di creare in rete un archivio di articoli e di rassegna stampa che rimane sempre presente, che è sempre consultabile facendo la ricerca su Google e che aiuta a incrementare la conoscenza del brand, le visite al suo sito e ai suoi canali social.
L’OPPORTUNITÀ – il ruolo chiave degli atleti nel mondo digitale
Le aziende oggi hanno una grande opportunità: nello sviluppo delle attività di influencer marketing possono infatti scegliere soggetti che su un piano digitale riescono ad accompagnare una community nel loro mondo di riferimento. E se (SE) sono bravi riescono anche a far vendere prodotti.
In un budget di marketing le aziende possono riservare uno spazio più o meno grande sia a pseudo-atleti digitali sia ad atleti professionisti con un impegno a livello economico/finanziario variabile (quindi non necessariamente economico) ma sicuramente light e di breve durata da un punto di vista contrattuale. Il ROI è misurabile sia che si tratti di far girare il brand che di vendere prodotti.
Per le aziende che hanno un DNA sportivo questa opportunità è ancora più strutturata e diversificata: possono infatti pensare anche a un’attivazione con degli influencer, quindi a un investimento su un piano totalmente digitale, per raggiungere un’audience più ampia e diversificata, ma devono stare molto attente a come farlo.
Questo tipo di attività deve essere inserita in una strategia che comunque continua a dare priorità alle sponsorizzazioni di atleti professionisti e le attività devono essere allineate per poter lavorare in maniera sinergica.
Perché?
Perché esistono due piani diversi attraverso cui comunicare che non si toccano e sono divisi da l’unica peculiarità umana che dal reale riesce a passare attraverso il digitale: LE EMOZIONI.
Ma dal punto di vista di un’azienda, come abbiamo visto, ciò che differisce davvero tra la sponsorizzazione e l’influencer marketing è il patrimonio intangibile che la sponsorizzazione sportiva porta sul tavolo.
Gli sport rappresentano certi valori, hanno un significato emotivo per i loro fan. Quando inizi a sponsorizzare una certa squadra sportiva, o un atleta, stai “comprando” la fedeltà di quei fan, e allo stesso tempo stai associando il tuo marchio ai valori che la squadra, l’atleta e lo sport rappresentano. Con gli influencer, questo è molto più difficile da ottenere.
LA RESPONSABILITÀ – preparazione, conoscenza, strategia e piano strutturato
Quando si confrontano le diverse strategie di marketing, il fattore più importante da considerare sono gli obiettivi e gli impatti che la suddetta campagna avrebbe. Ogni azienda si avventura in un’attività di marketing per raggiungere determinati obiettivi e ogni attività di marketing avrà impatti tangibili e intangibili. Ed è qui che crediamo che il Marketing Responsabile giochi un ruolo enorme.
Perché un’azienda che intende essere competitiva nel lungo periodo non pensa solo a fare profitti, ma anche e soprattutto a portare un cambiamento e a creare valore per i suoi clienti e per la società in generale.
E da una prospettiva di Marketing Responsabile, le Sponsorizzazioni saranno sempre un’opzione migliore dell’Influencer Marketing. In primo luogo, lo sport e le squadre sportive sono rilevanti al di là delle generazioni, si rivolgono a diverse fasce di età e alcuni di loro hanno anche un’eredità di oltre cento anni. E questa associazione e credibilità è qualcosa a cui, come azienda o brand, vorresti essere associato. Mentre gli influencer possono avere un impatto e dei “numeri” molto elevati ma hanno una durata molto ridotta. Possono essere rilevanti oggi, ma saranno rilevanti domani? Nessuno lo sa con certezza.
Anche da un punto di vista sociale, i club sono una parte della comunità, restituiscono alla comunità, aggiungono valore alla comunità e a ogni singola persona all’interno della comunità. Mentre la stragrande maggioranza degli influencer oggi promuove soprattutto uno stile di vita sontuoso e ostenta la bella vita che sta vivendo. E questo non è proprio una buona influenza sulle giovani generazioni.
Quando un marchio collabora con un influencer e lo paga una certa somma di denaro, i marchi sanno dove vanno a finire questi soldi? Si preoccupano dell’uso che viene fatto dei soldi che hanno appena pagato? Beh, noi crediamo che dovrebbero, ed è questo il senso del marketing responsabile.
Quando si tratta di un club sportivo, si sa che il denaro pagato al club è destinato alla gestione del club, agli stipendi, alle risorse, alla base e alle accademie e anche alla comunità e alla società. Ma quando si tratta di un influencer, il più delle volte il denaro va a finanziare lo “stile di vita instagrammabile” del suddetto influencer. Questo porta solo a sempre più ragazzi che idolatrano uno stile di vita falso e malsano.
Di nuovo, non stiamo dicendo che tutti gli influencer sono uguali. Ce ne sono alcuni davvero bravi che aggiungono un concreto valore alla loro particolare nicchia e si impegnano anche a “educare” il loro pubblico. Ma si tratta comunque purtroppo di una minoranza.
Ecco perché crediamo che la sponsorizzazione, specialmente nello sport, sia una strategia di marketing più efficace e sostenibile per i marchi rispetto all’influencer marketing. Siete d’accordo?
L’AUTENTICITÀ – che fa rima con verità
Fintanto che saremo esseri umani e manterremo una parte di umanità saremo in grado di distinguere, consapevolmente o inconsciamente, e sceglieremo.
Anche in un’epoca che sta accelerando verso un mondo totalmente virtuale, il faro che ci guida è ancora – almeno oggi – fatto di sogni, di paura, di fatica, di successi e di fallimenti. Possibilmente veri e non simulati.
Qualsiasi scelta venga fatta, questo ci deve sempre tenere molto all’erta e controllori sulla croce e delizia per eccellenza di ogni nostra azione: l’autenticità.
Quando l’autenticità viene messa in discussione accende una luce potente: che cosa c’è sotto? È tutto vero? O è tutto falso?
“Ma quello è un ironman per davvero o fa solo finta di esserlo???”
Il solo dubbio fa scricchiolare ogni buon pensiero, ogni buona azione, e manda a monte ogni buona strategia e ogni buon piano. Ma non è tutto perduto se, lato azienda, c’è consapevolezza costante della strategia e delle scelta del piano d’azione.
E a questo punto, pensiamoci bene, la domanda importante è un’altra e ha radici più profonde:
Da dove voglio che parta la verità?
Per aiutarci a rispondere potremmo riguardare The Truman Show che per decenni ha fatto scuola… e oggi potremmo anche guardarlo con la lente di Anna Soroki aka Delvey che può aiutare a dare nuove chiavi di lettura anche ai mondi reali attraverso i mondi inventati nel digitale grazie ai selfie collocati in “dove vorrei essere e sono, anche se a tutti gli effetti non potrei”.
Eh già, dura la vita! Noi continuiamo a considerare valido (= capace di portare un buon ROI) un programma di sponsorship ben strutturato ed “educato” con un team autentico di atleti autentici che casomai imparano a fare bene i selfie,
Ma pensiamoci di nuovo bene, quante Anna Delvey del mondo dello sport ognuno di noi conosce? Possiamo fare davvero finta che non esistano? O possiamo invece fare in modo che i vari mondi convivano pacificamente producendo i risultati giusti per le aziende?
La nostra risposta è sì. Se volete sapere come, contattateci!
IL PALCOSCENICO – il mondo fisico e il mondo digitale
Per guardare ai possibili punti di incontro e per valutare pro e contro di un’eventuale convivenza tra progetti di sponsorship e di influencer marketing dobbiamo prima di tutto guardare al punto di partenza di queste due realtà.
L’atleta ha base nel mondo fisico, che è anche il suo primo palcoscenico: un campo da calcio, da tennis, basket, volley, una montagna, un deserto, una strada asfaltata; la sua attività è caratterizzata da interazioni con altre persone: rivali, compagni di squadra, un entourage tecnico. E proprio in questo mondo fisico l’atleta si muove, matura una riconoscibilità, compie un percorso, ottiene dei riconoscimenti, misura il suo valore, e costruisce e sviluppa il suo storytelling.
L’influencer compie i suoi primi passi a partire da un mondo digitale, che è il suo palcoscenico, in questo contesto il mondo fisico diventa di fatto solo una “scenografia” e uno sfondo su cui costruire una narrazione, ma la sua storia, il suo valore, il suo storytelling vengono strutturati nel mondo digitale e rispondono alle sue dinamiche.
Un atleta ha il suo primo riconoscimento quando la sua performance viene misurata e valutata nel mondo fisico e, di conseguenza, può decidere di utilizzare questa sua riconoscibilità nella comunicazione del mondo digitale.
Un influencerinvece costruisce la sua riconoscibilità interamente nel mondo digitale.
ESSERE E PARLARE – comunicare nel mondo digitale
Per intraprendere la carriera di influencer come abbiamo detto la prima e fondamentale cosa da fare è costruire un’identità nel mondo digitale. Un influencer deve innanzitutto scegliere un ambito in cui agire – nel caso dello sport magari una disciplina – e ciò a cui deve mirare è attrarre e far crescere una community attorno a sé che vuole appartenere a quel mondo, vuole saperne sempre di più e decide che quel influencer specifico è il suo punto di riferimento in quell’ambito. Questa cruciale scelta può essere determinata da motivi diversi: senso estetico? Contenuti di rilievo? Coerenza nel contesto ambiente? Amicizie o conoscenze celebri esposte? O altri elementi che esercitano un’attrattiva.
L’influencer che riesce ad avere una community targetizzata nel mondo outdoor –dal trekking, ai primi passi nel climbing, all’esplorazione della foresta pluviale… – non deve eccellere in quello che fa, non deve necessariamente aver fatto un lungo percorso in quell’ambito, avere una storia di successi.
È “sufficiente” che si accrediti in quel mondo attraverso le immagini – video e foto – che lo collocano dove la sua community a un certo punto “pretende” sia.
Un influencer esiste perché esiste un palcoscenico digitale che ha scenografie, sceneggiature, co-protagonisti e comparse coerenti con il mondo che l’influencer costruisce attorno a sé. Non servono nemmeno copy strutturati, bastano didascalie costruite a partire dai messaggi che si sceglie di mandare.
L’obiettivo su cui si valuta il successo o l’insuccesso per un influencer ha a che fare con numeri e percentuali: follower, views, engagement.
Per diventare un atleta professionista la prima cosa che si deve costruire e custodire è un sogno, meglio se di lunga durata. Senza un sogno le possibilità di diventare un atleta professionista sono ZERO. Perché solo la forza che è in grado di darci un sogno può sostenere un atleta mentre attraversa la fatica, i sacrifici e i fallimenti.
Volendo essere più precisi ciò che crea un atleta professionista è un sogno trasformato in un obiettivo, che cresce insieme a lui. Un obiettivo che deve essere sempre misurabile nella realtà.
Il campo d’azione di un atleta è sempre reale e misurabile, che sia la pista di atletica, il campo di calcio, il rettangolo rosso… Perfino gli atleti che non hanno un campo d’azione ben definito, non hanno delle regole scritte da una federazione, non hanno una federazione, comunque devono riuscire a trasformare gli obiettivi e i campi in qualcosa di misurabile: per esempio gli alpinisti hanno la vetta fatta di metri e della storia delle salite a quella vetta. Un altro strumento di misura nella realtà è poi rappresentato dagli “avversari” e dai competitor.
Arrivati a questo punto risulta evidente la principale differenza tra un atleta professionista che comunica se stesso anche nel mondo digitale e un influencer sportivo.
Un atleta può decidere di sfruttare la sua storia, il suo background e lo storytelling costruito in anni di obiettivi misurati e raggiunti nel mondo reale per parlare anche al mondo digitale.
Quindi un atleta può prestarsi all’influencer marketing, MA un influencer non sarà mai un atleta.
Esiste comunque una via di mezzo tra le due categorie, anzi due:
L’atleta che è già a un buon punto della sua carriera ma non ha portato a casa grandi successi, in quel caso il palcoscenico digitale può diventare lo spazio/tempo attraverso cui capitalizzare una vita dedicata a uno sport;
Atleti non professionisti che hanno coltivato un sogno o una passione sportiva in parallelo a una vita “normale” al di fuori dello sport. Il fatto di aver comunque dedicato tutto il loro tempo libero al loro sport-passione può farli diventare dei punti di riferimento per una determinata community nel momento in cui decidono di condividere sul palcoscenico digitale le loro esperienze e le conoscenze acquisite.
L’AUDIENCE – con chi stiamo comunicando
“A ognuno il proprio pubblico.”
Questo statement è sufficiente a mettere in pace le coscienze e a farci credere che sia tutto semplice?
No.
Anzi, è un’affermazione che dovrebbe spingerci a cercare di capire ancora meglio chi è l’audience. E non solo in termini di target perché oggi i numeri sono molto più “impastati” di qualche tempo fa. Se vogliamo comunicare in maniera efficace nel mondo digitale dobbiamo guardare a tutti: monitorare le tendenze dei target più giovani, vulnerabili e dinamici per cercare di prevederne la prossima mossa e allo stesso tempo fare attenzione a dove e a come si muovono quelli con il portafoglio (che ricordo che in Italia sono sempre i più vecchi, il mito del trentenne milionario rimane USA).
Quello che voglio dire è che ragionare in termini “onesti” sul ruolo e sull’importanza dell’audience significa anche lasciare andare l’atteggiamento snobistico di chi la sa lunga su come funziona il mondo digitale (alla fine comanda sempre il portafoglio).
Al di là della targetizzazione (più o meno scrupolosa) una delle cose su cui dobbiamo concentrare un po’ della nostra attenzione sono i comportamenti trasversali che hanno un impatto sociologico, filosofico, psicologico, antropologico… e da questi si genera la domanda più importante che detta legge sul palcoscenico digitale:
Come vengono fruiti i contenuti? A cosa si è arrivati?
A velocità di fruizione, poca attenzione dedicata, zero approfondimento, generazione di opinioni non necessariamente basata sui fatti ma su altre opinioni che dominano grazie alla SEO, zero cultura dell’argomento, e linguaggio visivo e testuale che si adattano a questa logica.
Seppur ammetto che questa sia la cosa che più mi spaventa visto che vengo dal credo “la parola forma il pensiero e il pensiero forma il comportamento”, in questo contesto mi interessa semplicemente far presente che noi operatori siamo tutti portati a rispettare il volere dell’audience, soprattutto dell’audience pagante.
Questo significa che la distinzione tra influencer e atleti (e le sfumature di grigio in mezzo) sul piano della comunicazione non è così facile da far emergere.
E attenzione questo non significa che la soluzione è lavarsene le mani, questa consapevolezza deve soprattutto ricordarci che è molto importante essere vigili, essere onesti, essere rispettosi, essere leali, verso il proprio pubblico, verso il proprio cliente. Dei valori ancora validi oltre il confine generazionale dei baby boomer.
Da qualche anno nel mondo dello sport e più in particolare in quello dello sport marketing c’è un argomento che prende molto spazio: la tendenza, e di conseguenza l’utilità, a dare spazio ad attività di influencer marketing all’interno dei budget aziendali anche di aziende con DNA sportivo.
Se allarghiamo lo sguardo non si tratta certo di un tema “nuovo” ma del resto è risaputo che “se nella moda accade oggi, nello sport lo vediamo tra due anni” in questo caso specifico voglio però pensare che il motivo non sia da ricercare in questa vecchia tradizione (o bug) di ritardo fisiologico del mondo sportivo nelle mode del momento, ma nel sistema immunitario delle strategie di marketing e comunicazione delle aziende protagoniste del mondo sport indissolubilmente legato
all’indistruttibile e incontestabile connessione emozionale del brand con la propria audience attraverso ambassador di alto livello, sportivi reali che fanno cose reali, in un mondo reale e che facendo ciò che fanno provano emozioni reali.
Come professionisti nati e cresciuti nel marketing e comunicazione dello sport è da qualche anno che abbiamo a che fare con un cambiamento – anche se non repentino – e ci siamo trovati più volte a riflettere sul tema.
È chiaro che da esperti di sports marketing, da responsabili di team di atleti in azienda prima e poi da manager di atleti come liberi professionisti, quando l’influencer marketing si è introdotto nel mondo dello sport abbiamo avuto una prima reazione di rigetto. Si sa, le novità e i cambiamenti fanno sempre prima di tutto paura. E generano le prime domande che portano con sé dubbi e critiche negative.
LA DOMANDA – è possibile una convivenza?
Ecco dunque che a partire dalla nostra esperienza ci siamo approcciati al fenomeno, per fortuna nel farlo abbiamo adottato l’atteggiamento che cerchiamo di tenere sempre quando guardiamo qualcosa di nuovo: un’apertura alla filosofia orientale dell’inclusione piuttosto che dell’esclusione. È così che prima di cedere al naturale istinto di difesa e chiusura – “Cosa fa quello? Riesce a far finta di essere un ironman??? E guarda in quanti gli danno retta…” –, abbiamo cercato di capire meglio che cosa stesse accadendo, quali nuove dinamiche il fenomeno potesse far nascere e crescere, guardandolo un po’ più da vicino.
E la prima domanda a cui abbiamo avuto voglia di rispondere è:
Ci troviamo davvero di fronte a una scelta, a un bivio? O forse un programma di sponsorship può coesistere con un piano di influencer marketing? Ed eventualmente, in che modo?
All’apparenza, la sponsorizzazione e l’influencer marketing possono sembrare molto simili: in entrambi i casi un brand paga un soggetto una certa somma di denaro (e/o con prodotto) e in cambio, il soggetto promuove il marchio e i prodotti tra i suoi fan.
Ma c’è intanto una differenza importante che ha a che fare con la durata: le sponsorizzazioni sono fatte per lunghi periodi di tempo (di solito pluriennali), mentre le collaborazioni di influencer marketing sono temporanee e di solito calcolate su un numero X di post da pubblicare in un dato tempo e nella maggior parte dei casi, le campagne non durano più di qualche settimana.
Quello che vorremmo fare ora, con una serie di articoli sull’argomento, è provare a guardare le due attività di marketing da diverse prospettive e cercare di capire in che modo una influenza l’altra.
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